FERRARA: Per gli agricoltori la pazienza è finita: 5mila persone in piazza per chiedere soluzioni al governo. Cimice asiatica, concorrenza dei mercati esteri e restrizioni sui fitosanitari hanno messo in ginocchio il comparto. (Estense.com, 31 Gennaio 2020 )
BOLOGNA: Dal primo gennaio 2021, le aziende ortofrutticole che lavorano con la GDO dovranno essere iscritte alla “ Rete del lavoro agricolo di qualità Ne parliamo con Giorgio Santambrogio, Presidente dell’ ADM”. (Fresh Plaza, 29 Gennaio 2020 ).

Queste due notizie, scollegate tra loro, trovano un nesso nello stridente contrasto che qualsiasi lettore può constatare: da un lato, produttori che scendono in piazza esasperati da questioni gravi, urgenti ed irrisolte. Dall’altro, uno spicchio del mondo della distribuzione che, in giacca e cravatta, disserta su problemi che per gli agricoltori sono gravi tanto quanto lo era il traffico nella Palermo di Johnny Stecchino. Certamente il Presidente dell’Associazione Distribuzione Moderna (ADM) conosce bene il suo mestiere ed il suo ruolo e quindi sa che il “bollino” della Rete del lavoro agricolo di Qualità gli consentirà, grazie all’impegno ed agli sforzi dei suoi fornitori, di potenziare l’immagine ed il prestigio della sua marca, conquistando la fiducia del consumatore verso prodotti le cui garanzie di sicurezza e qualità sono però ottenute per mezzo di adempimenti in capo ai produttori. Al di là delle grandi idealità e delle tematiche condivisibili (lotta al caporalato, rispetto delle Leggi sul lavoro, regolarità contributiva) l’ADM sembra voler porre in essere una prova di forza con la quale cerca di disegnare un futuro a lei congeniale, nel quale la strategia è rafforzare il proprio marchio, aumentare il proprio peso e guadagnare autonomia rispetto all’industria di marca per rosicchiare valore all’interno della filiera facendo leva su requisiti e attività che però graveranno sui produttori.
Nella mia veste di presidente di una OP, pur condividendo le intenzioni sulle quali nacque la “Rete di Qualità“, credo occorra precisare alcuni aspetti, non fosse altro che per il fatto che ADM pone un termine perentorio nei confronti del mondo della produzione (il primo Gennaio 2021) mentre é estremamente dilatoria nei confronti di se stessa, rinviando a data da destinarsi la creazione di un “cartello etico“ che definisca gli impegni di cui andrà eventualmente a farsi carico la GDO. Raschiando via la patina retorica delle buone intenzioni, in questa vicenda sono riconoscibili alcune vecchie e familiari dinamiche con le quali parte della GDO cerca di sottrarre potere decisionale ai produttori, se è vero (com’è vero) che ADM questa scadenza l’ha fissata senza prima confrontarsi con la produzione. Non intendo dare corpo ad una schermaglia dialettica, ma ritengo che se parte della GDO oggi si sente legittimata a porre richieste come questa, sfrontata e un po’ presuntuosa, ciò accade anche per colpa di un mondo produttivo che non sempre ha saputo dimostrarsi forte nella fase negoziale, vittima di una sorta di sudditanza che spesso lo porta a sentirsi sotto scacco e quasi obbligato a recepire favorevolmente ogni richiesta gli venga sottoposta. Lo dico con pacatezza e rispetto per tutti: nel momento in cui parte della GDO mostra i muscoli e cerca di prenderci per un orecchio per portarci dove non vorremmo andare, allora dobbiamo renderci conto di non dover essere strumento di nessuno, perché non siamo una parte estranea alla filiera. Noi siamo la filiera, tanto e quanto lo sono i distributori.
Quando la GDO punta sull’etica e sul consumo alimentare sostenibile, fa bene a farlo. Ma farebbe anche bene a superare un’ambiguità che è ormai ontologica: quella di mettere in concorrenza produttori esteri svincolati da particolari obblighi con produttori italiani i quali, oltre ad agire in cornici normative e fitosanitarie rigorose, vengono fatti oggetto da parte della GDO di richieste di sconti, contribuzioni di fine anno ai costi commerciali e aste al ribasso. Se si vuole proporre al consumatore l’esistenza di un’agricoltura felice e virtuosa, in grado di dare al pubblico prodotti genuini e raccolti nel rigido rispetto dell’etica delle Leggi del lavoro e della fedeltà fiscale e contributiva del produttore, allora andrebbe eliminato dagli scaffali ogni prodotto che non rispetti quei canoni. Diversamente, si utilizzerebbero gli sforzi degli agricoltori italiani per conquistare la fiducia dei consumatori e accreditarsi come titolari e interpreti credibili di un’etica che viene però smarrita nel momento stesso in cui nello scaffale a fianco di quello dove vengono esposte Selenella e Dop troviamo patate provenienti da Stati con regole fitosanitarie e Leggi sul lavoro diverse e ben più lasche delle nostre. Parafrasando J.F. Kennedy nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca, si potrebbe dire che una certa parte della GDO non dovrebbe continuamente chiedersi cosa la filiera può fare per lei: dovrebbe invece chiedersi cosa può fare lei per la filiera.
Chi predica una “GDO etica” , cercando di piegare i produttori alle proprie volontà, interferendo nelle loro attività, tendendo a normare/proibire/organizzare, farebbe bene a porsi una domanda: tutte le Leggi e le incombenze che si sono affastellate nei confronti della produzione italiana potrebbero aver contribuito alla sua desertificazione? Davanti al calo drammatico del numero delle aziende agricole italiane (superiore al 30%, nell’ultimo decennio) penso sarebbe bene non colpire i produttori superstiti con ulteriori imposizioni che renderebbero ancor più complicata la loro vita. Specialmente laddove questo avviene attraverso decisioni che provengono da chi, seduto dietro una scrivania, forse ritiene che apporre un’etichetta “etica“ possa essere in qualche misura salvifico rispetto alla primaria finalità della distribuzione, che era e resta quella di produrre utili. Da anni , con adempimenti sempre crescenti, ci stiamo avvitando su noi stessi, senza che questo produca particolari benefici per i produttori. Anzi: si incrementano i costi e nel contempo non si semplifica nulla, al punto che per un agricoltore diventa sempre più difficile capire se è completamente in regola oppure no. Se si pensa di poter annegare i problemi dell’agricoltura nell’acquasantiera miracolosa di una Rete, sarà bene prendere coscienza del fatto che alcuni problemi sanno nuotare benissimo.
Tra i presupposti, senz’altro apprezzabili, sui quali nacque la Rete di Qualità vi era che l’adesione fosse spontanea e non obbligatoria. Un’iniziativa che in quattro anni ha però riscosso scarso successo, considerato che le aziende aderenti sono circa 4.000, un numero basso e anche imbarazzante, dato che rappresenta a malapena lo 0,5% delle 750.000 attività agricole iscritte al registro delle imprese (fonte: Confagricoltura). Chi oggi vorrebbe elevare quell’adesione a requisito indispensabile per essere fornitore della propria catena distributiva evidentemente auspica una enfatizzazione del ruolo di quell’organismo, senza però preoccuparsi del rischio di aprire una breccia per un ulteriore aumento di importazioni di prodotto estero, visto che ai produttori stranieri l’iscrizione alla Rete non viene richiesta. E dire che viviamo in una Nazione in cui moltissime aziende agricole possono già vantare certificazioni (come GlobalGAP e Grasp) che forniscono ampie garanzie non solo sulla sicurezza del prodotto, ma anche sui temi che la Rete di Qualità intende presidiare (rispetto della salute e dei diritti dei lavoratori, delle Leggi sul lavoro, dei diritti dei minori). Ne deriva che già oggi, grazie alle autorità preposte ai controlli e all’attività volontaria dei tanti consorzi di qualità, i produttori italiani forniscono alla GDO prodotti salubri e sicuri. Difficile quindi cogliere buon senso in iniziative che andrebbero a creare ulteriori disparità rispetto ai produttori esteri, tanto meno in giorni nei quali assistiamo a polemiche come quella sull’etichetta Nutriscore, che ci aiutano a capire quanto la volontà politica possa, quando vuole, anteporre interessi particolari a questioni di matrice etico-salutistica.
Quali maggiori garanzie servono ai consumatori rispetto a quelle che già hanno nel momento in cui acquistano ortofrutta prodotta seguendo regole ferree e disciplinari rigorosissimi? Davvero qualcuno pensa che alla produzione italiana serva questo ulteriore elemento distintivo? Nel nostro Stato esistono già tutti gli strumenti normativi per combattere caporalato, lavoro nero e sfruttamento, così come esistono banche dati che consentono all’Agenzia delle Entrate e all’Inps di verificare in tempo reale la regolarità della posizione fiscale e contributiva di chiunque. Da qui discende la ridondanza dell’obbligatorietà di adesione alla Rete di qualità, fermo restando il fatto che non aver riportato condanne penali per violazione delle Leggi non equivale a non averle mai infrante, così come l’aver ricevuto una cartella esattoriale, che poi magari una qualche commissione tributaria un domani annullerà, non fa di un produttore un evasore del fisco. Allora, mettiamoci un po’ con l’animo in pace : se parte della GDO ha l’ambizione di estromettere dal mercato aziende non rispettose delle Leggi o non puntuali nel pagamento di tasse e contributi, potrà farlo anche portando un pò di pazienza, affidandosi al buon funzionamento della vigilanza Inps e dell’Agenzia delle Entrate. Nel frattempo, se veramente esiste la volontà di avvantaggiare i produttori onesti, potrebbe cominciare col far sparire dai propri scaffali prodotti agricoli esposti a prezzi ampiamente inferiori alle quotazioni correnti, di provenienza non ben identificata e con etichettature che rendono complessa e opaca la reale tracciabilità del prodotto, finendo col trarre in inganno il consumatore circa il reale valore di ciò che sta acquistando.
La vera discussione non è quindi sulla bontà o meno della “ Rete di qualità “, che per quanto mi riguarda resta una bella iniziativa, ma sul bivio che ci si para davanti nel momento in cui qualcuno decide di mutarne la natura, rendendone l’adesione un requisito essenziale per poter essere fornitore della GDO. Se questo fosse l’orientamento di tutte le catene di distribuzione, magari pensando di poter convertire i produttori brandendo la Rete come una clava, allora sarà necessario affrontare alcuni passaggi ineludibili, primo fra tutti lo squilibrio nella distribuzione del valore all’interno dalla filiera. Qualche tempo fa uno studio dell’Ismea aveva calcolato che per ogni euro di spesa in ortofrutta fresca acquistata presso la GDO solamente 22 centesimi arrivassero al produttore, e questo mi fa pensare a Margaret Thatcher, quando affermava che più grande è la fetta presa dallo Stato, più piccola diventa la torta a disposizione degli inglesi. A questa reminiscenza aggiungo le parole del ministro Bellanova: “Dobbiamo impegnarci insieme per avere un lavoro agricolo e alimentare di qualità, con la giusta remunerazione. La tutela del reddito dei produttori di cibo è essenziale. E’ essenziale riequilibrare la catena del valore lungo l’intera filiera”. Per concludere: se si vuole rilanciare il progetto della Rete di Qualità, finito sostanzialmente su un binario morto, sarà bene farlo tutti insieme, senza fughe in avanti e attraverso un confronto serrato col mondo della produzione. Per evitare che la Rete finisca con l’essere un organismo pletorico e poco utile, il rilancio dovrà prevedere, per chi entra, qualche ostacolo in meno e qualche importante incentivo, specialmente fino al giorno in cui l’obbligo di adesione non sarà esteso ai produttori esteri (e qui qualcuno dovrà spiegare nel dettaglio come pensa di riuscire ad effettuare concretamente questa parificazione). Diversamente, finiremmo con l’importare, assieme al prodotto straniero, anche una quota del lavoro minorile, del caporalato e del lavoro nero svolto all’estero per raccogliere quell’ortaggio o quel frutto che poi arriva sulle tavole degli italiani.
Matteo Todeschini